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Volontà divina e orgoglio umano

Testata: La Repubblica
Data: 01 novembre 2009
Pagina: 1
Autore: Vito Mancuso
Titolo: «Volontà divina e orgoglio umano»

È del tutto naturale che gli uomini utilizzino la loro intelligenza per cercare di vivere il più a lungo possibile, è a causa della spinta della natura che li costituisce, la medesima che li porta a sentire il desiderio di cibo, di sesso, di conoscenza. L'astrofisica contemporanea ci insegna che la legge cosmica fondamentale è l'espansione, in base alla quale l'Universo è passato da una dimensione tanto piccola da risultare inaccessibile alla mente umana (10-33 centimetri) a una dimensione tanto grande da risultare altrettanto inaccessibile (un diametro di una decina di miliardi di anni luce).

Oggi, inoltre, si sa che l'Universo non solo non decresce la sua espansione ma l'accelera. E questo ha portato a postulare l'esistenza di una forma di energia diversa da quella conosciuta e per il momento chiamata «oscura». Ora, siccome anche gli uomini sono un frammento di Universo (un frammento meno che minuscolo per quanto riguarda l'essere come energia e materia, ma il più ricco per quanto riguarda l'essere come informazione), essi non possono che riprodurre la legge cosmica fondamentale: per questo essi tendono a espandersi, e l'espansione umana si dice anche come desiderio di vivere più a lungo. Le religioni nascono da qui, dal desiderio di espandersi anche oltre la morte, per realizzare il quale ogni religione ha il suo peculiare percorso. E naturalmente anche la scienza, che oggi nella mente di molti gioca lo stesso ruolo che nel passato aveva la religione, non si
sottrae alla ricerca. La pianta dell'immortalità di cui parlava il saggio Utnapištim a Gilgameš nel mito accadico di oltre quattro millenni fa («c'è una pianta che cresce sott'acqua, ha le spine come il rovo, come la rosa; ferirà le tue mani, ma se riuscirai a prenderla, allora nelle tue mani ci sarà ciò che ridà a un uomo la gioventù perduta») è ora oggetto di ricerca in chissà quanti laboratori del mondo.

Come valutare questo fenomeno? Da un punto di vista sociopolitico penso che il progressivo innalzamento dell'età media sia da valutare più che positivamente, perché società più vecchie sono anche società più sagge, più in grado di moderare i conflitti, meno aggressive. Ma la questione più delicata riguarda il singolo, non la società, e consiste nel chiedersi come valutare dal punto di vista
etico la tendenza a prolungare la vita fino a infrangere quelli che, fino a oggi, vengono ritenuti i suoi limiti naturali. La questione assume per la teologia una peculiarità tutta sua: non è questo il vertice del peccato di orgoglio da parte dell'uomo? Col prolungare la vita ricorrendo alla tecnica non si giunge a togliere a Dio ciò che contraddistingue l'essenza della sua signoria?

In realtà, se si guarda alla Bibbia, si scopre che Dio si rallegra della lunga vita degli uomini. È vero che i numeri biblici vanno sempre presi con le pinze perché spesso dietro le cifre si nascondono significati di altro genere, ma è comunque molto significativo che agli uomini cronologicamente più vicini alla creazione il libro della Genesi attribuisce età mozzafiato: Adamo visse 930 anni, Set 912, Matusalemme 969 (record assoluto), Noè 950. Dopo il diluvio le cose cominciarono a prendere un andamento (noi diremmo) più umano, ma che rimane straordinario: Abramo visse 175 anni, sua moglie Sara 127, Giuseppe 110, Mosè 120. L'età di Mosè è quella canonica, in quanto Dio aveva detto che «il mio spirito non resterà sempre nell'uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni» (Genesi 6,3). Un traguardo, penso, di cui ognuno di noi si accontenterebbe. In realtà, mentre ribadisco che i numeri biblici non vanno mai presi alla lettera e tanto meno nel caso concreto, sottolineo altresì che il messaggio biblico fondamentale è la perfetta corrispondenza tra volontà divina e lunga età dell'uomo: Dio vuole che gli uomini vivano a lungo. Il profeta Isaia esprime tale prospettiva quando prefigura la realizzazione delle promesse divine: «Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni, poiché il più giovane morirà a cento anni» (Isaia 65,20).

La valutazione etica e teologica della ricerca dell'immortalità deve però proseguire mettendo in rilievo un altro aspetto, il vero e proprio elemento decisivo: per quanto la tecnica possa avere successo, non sarà mai essa che darà all'uomo la pienezza dell'umanità. Perché? Perché la tecnica può agire solo sulla dimensione spazio-temporale dell'essere, e non è qui, per quanto sia importante, che si gioca la peculiarità della vita umana in quanto "umana". Non ci sono dubbi che vivere a lungo sia bello, ma non è il vivere a lungo a definire l'essere uomo, bensì la libertà. Il vero uomo è l'uomo libero, libero anche da se stesso e dai suoi interessi immediati, e che per questo è in grado di spendersi a favore del bene e della giustizia, senza temere, quando è il caso, di rischiare per questo la vita fisica. La pienezza dell'umanità non è data materialmente dal numero dei giorni, ma si definisce spiritualmente in base alla qualità etica e spirituale dei giorni vissuti.

Il giudice Rosario Livatino morì a trentotto anni per un agguato mafioso, il teologo Dietrich Bonhoeffer morì impiccato a trentanove anni su ordine di Hitler, Etty Hillesum morì a ventinove anni ad Auschwitz per aver scelto di stare accanto alla sua gente, e sono solo tre esempi di uomini che hanno raggiunto la pienezza della vita nell'impegno per il bene e la giustizia, protagonisti di una vita molto più ricca di chi semplicemente mira a rimanere qui il più a lungo possibile. Nel libro dei Proverbi si legge che «chi pratica la giustizia si procura la vita» (11,19). In realtà Hillesum, Bonhoeffer, Livatino e molti altri la vita la persero a causa della giustizia. Ma qui non si tratta della vita spazio-temporale, ma di un'altra dimensione della vita, il cui presentimento fece bere il veleno a Socrate con serenità e che il Nuovo Testamento descrive dicendo che in essa «avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pietro 3,13).