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Il processo farsa all'imputato Gesù
Testata: La Repubblica
Data: 29 settembre 2007
Pagina: 27
Autore: Carlo Maria Martini
Titolo: «Il processo farsa all'imputato Gesù»
Gesù è davanti al sommo sacerdote, probabilmente ancora Anna, che lo interroga sui suoi discepoli e sul suo insegnamento. Egli risponde che ha parlato sempre in pubblico, ha insegnato nelle sinagoghe, nel tempio dove tutti si radunano; non comprende dunque perché viene interrogato, mentre si dovrebbero interpellare coloro che l'hanno ascoltato.
È interessante notare che l'evangelista riferisce brevemente e in forma indiretta ciò che dicono gli accusatori, mentre fa parlare a lungo Gesù, presentandolo come colui che ha in mano la situazione, che insegna quale sarebbe stato il procedimento corretto, dando così una lezione al sommo sacerdote.
Ma mentre parla, una delle guardie lo schiaffeggia e gli dice: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gesù replica: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Nel Discorso della montagna aveva insegnato: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra» (Matteo 5,39). Ora tuttavia egli, con libertà somma, pacatamente e dignitosamente si difende, dimostrando la sua superiorità sulla situazione e di poterla dominare, pur se sta per essere sempre più schiacciato e umiliato. Questo schiaffo è di fatto il primo dei colpi che Gesù riceverà, il segno che non è intoccabile, che è possibile scagliarsi contro di lui impunemente; è un incoraggiamento per tutti coloro che in seguito vorranno colpirlo.
Egli tuttavia rimane saldo nella sua serenità e nella sua forza interiore.
Termina qui il processo religioso. Ci viene riferito che «Anna mandò Gesù legato a Caifa, sommo sacerdote» , ma di un'azione processuale da parte di quest'ultimo non si fa parola. Soltanto si aggiunge, dopo una nuova interruzione su Pietro, che Gesù viene condotto dalla casa di Caifa al pretorio e si accenna al fatto che, poiché era l'alba, «essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua».
Con questo accenno culturale, di carattere piuttosto ipocrita, si chiude il processo religioso, davvero brevissimo.
Ora vorrei tuttavia interrogarmi soprattutto sulla povertà del processo così come è presentato da Giovanni. Mentre è più plausibile nei sinottici, nel IV vangelo è una vera farsa, una caricatura.
Mi pare che Giovanni intenda probabilmente sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica: Gesù viene portato davanti a chi non è autorizzato né a interrogarlo né a condannarlo e tocca a lui spiegare come andrebbe condotto il processo.
Ci troviamo davvero di fronte al crollo di una istituzione, una istituzione - notiamo - che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove.
Sarebbe stato questo l'atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale.
Certamente i sommi sacerdoti hanno molti titoli di discolpa. Possiamo comprenderlo considerando tutta la storia di Gesù e il modo con cui egli si è presentato; soprattutto oggi si è molto sensibili alle scusanti del popolo ebraico e anche, in qualche modo, dei capi del popolo. Ciò non toglie che Giovanni ci mette di fronte a una istituzione che ha perso l'occasione provvidenziale in vista della quale era sorta.
Si pone qui un problema gravissimo, quello della possibilità che un'istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare.
Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche. Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza.
E ho pure affermato, a proposito della necessità di imparare a convivere tra diversi – la sfida più urgente della nostra civiltà – , che non dobbiamo tanto insistere sulla ortodossia religiosa delle singole parti, auspicando che ciascuno sia religioso al meglio secondo la sua tradizione. Le tradizioni, comprese le nostre, possono conoscere infatti anche delle forme di decadenza. Occorre piuttosto fermentarci e vivificarci a vicenda, al di là dell'appartenenza religiosa, così che ciascuno sia aiutato a rispondere di fronte a Dio.
Personalmente non sono favorevole al dialogo religioso quando considera le religioni come monoliti, realtà che devono dialogare restando immutabili. L'uomo è fatto per superare se stesso; come diceva Pascal: «L'uomo supera infinitamente l'uomo». Occorre dunque lasciarci fermentare a vicenda da parole vere e autentiche.
Parole vere e autentiche, non collegate a una tradizione religiosa precisa, le troviamo soprattutto nel Discorso della montagna. Parole che toccano ciò che di più sensibile c'è nell'esistenza umana: la fedeltà, la lealtà, l'umiltà – non sappia la destra ciò che fa la sinistra –, il perdono, il non preoccuparsi delle cose di questo mondo, non accumulare tesori, non giudicare per non essere giudicati, fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi.
Questo è un insegnamento sicuro per tutti, che tocca nell'intimo il nostro cuore e ha la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un musulmano, un indù, un buddhista, proprio in quanto attinge le profondità dello spirito.
Dunque, rimanendo necessario un dialogo a livello delle grandi religioni, pur se spesso un po' formale, il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso.
In proposito mi colpisce un'analogia interessante con la cosiddetta «meditazione dei due vessilli» degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola, là dove si dice che Gesù raccomanda ai suoi discepoli di predicare la vera dottrina. Ora "dottrina" era la parola classica per indicare la Scrittura, la tradizione teologica cristiana. Ignazio invece propone come vera dottrina la povertà, l'umiltà, l'amore delle umiliazioni, il non ricercare se stessi: «Considerare il discorso che Cristo nostro Signore fa a tutti i suoi servi e amici che invia a tale lavoro, raccomandando loro di aiutare tutti col portarli, prima, a una somma povertà spirituale e, se piacerà alla sua divina maestà e li vorrà scegliere, anche alla povertà materiale; in secondo luogo, a desideri di obbrobri e disprezzi, perché da queste due cosa nasce l'umiltà».
Sono le verità di fondo del Discorso della montagna, assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate.
Ci rendiamo conto che il compito del discepolo è grande, è un compito di sincerità e di autenticità, e ad esso noi siamo continuamente spinti da una grazia superiore alle nostre forze, dalla grazia dello Spirito santo, che ci guida, ci stimola e ci sorregge.
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