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Perdonare è giusto
Testata: La Repubblica
Data: 04 novembre 2011
Pagina: 43
Autore: Gherardo Colombo
Titolo: «Perdonare è giusto»
La concezione filosofica secondo la quale chi trasgredisce deve essere sottoposto a una pena, e cioè deve soffrire, dipende, da una più generale convinzione sull’essenza della relazione tra esseri umani: se questa è basata sulla teoria del premio e del castigo, la conseguenza della violazione della regola non può essere che il castigo.
D’altra parte l’idea retribuzionista della pena è fondata a sua volta sull’idea che sia giusta l’esclusione. Si può retribuire il male con il male solamente se si ritiene che l’espulsione dalla relazione con l’altro sia umanamente (e metafisicamente e teologicamente) non solo ammissibile, ma anche positiva al verificarsi di certe condizioni. Questa idea appartiene a una cultura più ampia, che ha le proprie applicazioni anche in altri campi, primo tra tutti quello educativo. Il modello funziona, al di là delle parole, pressappoco così: poiché hai rotto la relazione affettiva con me (con la comunità, Dio), meriti che io (la comunità, Dio) rompa la relazione affettiva con te. E quanto più grave è stata la rottura, tanto più grave deve essere la frattura da parte mia (della comunità, di Dio). Se la rottura della relazione è consistita, per esempio, nell’eliminazione della fisicità altrui, anche la tua fisicità deve essere eliminata (e quindi la pena deve essere la morte, sia essa effettiva oppure figurata, come nella prigione a vita). Se la rottura non è esaustiva, devi subire un allontanamento, un’esclusione proporzionata all’esclusione dal rapporto affettivo che avevi causato tu. (...)
Ora, questa concezione può essere in sintonia con una visione strumentale dell’essere umano il quale, proprio perché «strumento» può essere escluso, allontanato, eliminato quando non serve o infastidisce. Non vale perché è umano, ma per quello che fa: se fa bene viene premiato, se fa male viene punito. Sicuramente è invece distonica con il principio proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, e stabilito dalla Costituzione italiana, secondo il quale l’essere umano non è strumento ma ha (è) dignità. L’essere umano è degno perché è tale, non per quello che fa (...).
Quando, da magistrato, svolgevo le funzioni di giudice istruttore, succedeva che dovessi emettere mandati di cattura, provvedimenti con i quali disponevo che una persona, prevedendolo la legge, venisse rinchiusa in carcere in custodia cautelare (la prigione prima della condanna). Poniamo che avessi disposto l’arresto di una persona accusata di aver compiuto una rapina in banca minacciando un cassiere con un temperino: succedeva che qualche giorno dopo si presentasse nel mio ufficio a chiedere un permesso di colloquio la moglie, accompagnata da un bambino di pochi anni. La situazione mi poneva interrogativi insolubili, perché non ero in grado di trovare la giustificazione all’aver sottratto al bambino il papà. Quale responsabilità aveva, il bambino, perché subisse la sofferenza della privazione del padre? Se in una logica retributiva si potrebbe concepire che al (fino a quel punto presunto) trasgressore possano essere sottratti diritti fondamentali come quello alla relazione con i suoi cari, nemmeno in quella logica può essere compresa la compressione dei diritti fondamentali di terzi, come appunto il figlio. Non si può rispondere dicendo che il padre avrebbe dovuto pensarci prima, perché si tratta di un argomento che non riguarda il figlio, ma il padre (e credo sia ormai pacifico che non dovrebbe esser ammissibile che le colpe dei padri possano essere fatte ricadere sui figli). Né si può rispondere che è giusto sottrarre il padre al figlio perché gli sarebbe di cattivo esempio: l’osservazione prova troppo, perché non tiene conto, da una parte, che se così fosse il figlio dovrebbe essere escluso definitivamente dai contatti con il padre, e non dovrebbero esser consentite nemmeno le sei ore di colloquio mensili; dall’altra, che succede non raramente che persone commettano reati per necessità di altre persone che stanno loro intorno (per esempio per sopperire alle necessità della famiglia in caso di povertà). Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione (...).
Lo sviluppo del concetto di dignità, peraltro, porta a riconoscere come suo seguito quello di libertà: se le persone sono apprezzabili in quanto tali non possono essere sottomesse ma deve esser loro riconosciuta la libertà (perché la sottomissione ha senso soltanto se le persone sono incapaci, e devono perciò essere dirette da altri, e pertanto non libere). Ma se la libertà è attributo della dignità, non può essere limitata salvo che in un unico caso: quando ciò serve a consentire la libertà altrui. La libertà inoltre può essere limitata solo entro un determinato confine: che la limitazione serva esclusivamente allo scopo di consentire agli altri di esercitare la propria libertà. Con queste osservazioni è coerente che le regole pongano obblighi o divieti indirizzati a tutelare la libertà dei membri della comunità e a garantirne l’esercizio, ma è incoerente la conseguenza retributiva della violazione. È conforme al modello imporre «non uccidere», ma non è conforme far seguire «altrimenti ti uccido», perché è proprio questa seconda parte, la sanzione, a non essere in linea con dignità e tutela della libertà. Anche sotto il profilo educativo, perché fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola. La sofferenza imposta non può, non è in grado di convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l’ordine). La pena, quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà, perché questa è inscindibile dalla responsabilità.
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