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Le nuove vie della saggezza

Testata: La Repubblica
Data
: 09 giugno 2010
Pagina: 57
Autore: Franco Marcoaldi
Titolo: «Le nuove vie della saggezza»

NEW DELHI Prima sorpresa: dalle strade sono scomparse le mucche sacre della tradizione hindu. Seconda sorpresa: dai parchi sono scomparse le scimmie. Terza, e ben più importante sorpresa: dal centro residenziale della città cercano di far scomparire mendicanti e homeless.
La ragione è questa: New Delhi è tutta proiettata verso i futuri giochi del Commonwealth che, ironia della sorte, significa alla lettera "bene comune". Per intanto però, si vuole nascondere il male comune della povertà - operazione non soltanto indecorosa da un punto di vista civile, ma di ben ardua attuazione in un paese che vede il settanta per cento della popolazione vivere con meno di due dollari al giorno. Tant'è: la shining India, l' "incredible India" che da anni sta su tutte le prime pagine dei giornali del mondo grazie ai suoi formidabili tassi di crescita, questo vuole. Mostrare a sé stessa e agli stranieri soltanto il suo aspetto più smart, più smagliante. Sta poi al visitatore scegliere che cosa vuole vedere. Se va in cerca di confortevoli multisale con le ultime produzioni di Bollywood, di ristoranti sopraffini, dei famosi negozi di pashmine che vendono sottobanco anche l'inarrivabile (e illegale) shatush; oppure se intende ammirare le antiche e fascinose vestigia Lodhi e Moghul nei tanti parchi pubblici che da qualche anno in qua sono tenuti in modo impeccabile, potrà appagare al meglio sensi e piacere estetico. Ma quello stesso visitatore dovrà poi decidere se cancellare o meno dal suo sguardo l'altra India: tumultuosa e lurida, cenciosa e magica, misera e colorata. L'India che vive per strada e ricrea ogni giorno dell'anno il suo reiterato e imprevedibile teatro. Ne discende che, se possibile, questo straordinario paese risulta agli occhi di noi occidentali ancor più indecifrabile di quanto accadeva in passato. E penso a un passato nient'affatto lontano: a non più di dieci, quindici anni fa, quando il boom economico indiano non aveva ancora prodotto gli effetti più travolgenti di una fenomenale modernizzazione. A quei tempi, la via d'uscita dal puzzle era quella di sempre: l'esotismo, l'orientalismo. Il rimando a una realtà "altra" per eccellenza. Come pretendere di capire con la nostra struttura mentale una società dove sono ancora presenti le caste, dove tutto comincia e finisce in religione, dove vige un pervasivo fatalismo cosmico? Il guaio è che l'India di oggi è ancora così, ma allo stesso tempo non è più così. E dunque le cose si complicano maledettamente.
Dipankar Gupta, uno dei più influenti intellettuali indiani, ha scritto a riguardo un libro molto interessante: The Caged Phoenix. Can India fly? (Penguin Viking), in cui invita occidentali (e connazionali) a disfarsi dell'antico e comodo bagaglio di stereotipi culturali, per esaminare lo stato di cose di questo paese così come si farebbe con qualunque altro del mondo. Ovvero, con strumenti empirici, scientifici, razionali. Se la fenice-India è ancora in gabbia e stenta a volare è perfettamente inutile affrontare il suo deficit politico-sociale facendo appello al ritornello della sua millenaria tradizione culturale e religiosa. Sarebbe come se leggessimo tutti i gialli, vecchi e nuovi, nella stanca e reiterata convinzione che «il colpevole è comunque il maggiordomo». Perché, al contrario, non impugnare le armi dell'intelligenza critica e valutare uno a uno tutti gli impedimenti strutturali che non consentono una più equa ripartizione di benessere tra il miliardo e passa di indiani che abitano il subcontinente? Si scoprirà allora che l'enorme ricchezza dei pochi viaggia di conserva con la povertà dei molti; che la crescita nei settori di alta tecnologia si accompagna all'endemica depressione della vita rurale; che la governance democratica è l'ultimo dei problemi per una classe politica corrotta e autoreferenziale.
Ho modo di conoscere Dipangkar Gupta a una cena offerta da carissimi amici italiani, cena a cui è presente anche un altro saggista di prim'ordine, Gurcharan Das, autore di un libro di segno completamente diverso: The difficulty of Being Good. On the subtle art of Dharma (Penguin Books), in cui la ricerca della serenità interiore si affida per l'appunto alla sottile arte del Dharma, delineata in quella miniera senza fine di saggezza che è il poema epico Mahabharata; il miglior viatico, a giudizio di Das, per affrontare anche i difficili giorni di una postmodernità contrassegnata da un dilagante fondamentalismo. Richiamandosi al «concetto inafferrabile e elusivo» di Dharma ("legge cosmica", ma mille altri sono i suoi significati), non soltanto troveremo conforto nella battaglia quotidiana con le eterne passioni dell'essere umano (angoscia, dovere, vendetta, invidia, rimorso), ma potremo affrontare al meglio anche le decisioni lavorative o le strategie politiche. E visto che queste affermazioni provengono da un uomo che prima di dedicarsi totalmente alla vita intellettuale ha rivestito posizioni manageriali di primissimo piano in colossi come la Procter&Gamble, meglio non sottovalutarle. Tanto più perché, a differenza di Gupta, secondo il quale la fenice-India non potrà prendere il volo senza nuove e adeguate politiche statali redistributive, per Das invece i mali antichi si stanno già superando grazie al neoliberismo avviato negli anni Novanta. E con questo, capite da voi che la cena in compagnia di due prestigiosi intellettuali che offrono due letture antitetiche del proprio paese, è la perfetta rappresentazione plastica del labirinto in cui sono finito. Anzi, meglio ancora, della spirale da cui sono avvolto, per seguire il suggerimento di un terzo personaggio, pure lui invitato alla cena: quel Sam Miller, autore di Delhi. Adventures in a Megacity (Penguin Viking), che ha deciso di raccontare questa sterminata area urbana (oltre venti milioni di abitanti), percorrendola tutta quanta a piedi e seguendo, per l'appunto, l'andamento della spirale. Il viaggio parte da Connaught Place, già «centro commerciale e geografico della Delhi del ventesimo secolo», ma ora in fase di ulteriore rivolgimento, visto che qui si situa lo snodo fondamentale della nuova metropolitana: «icona» ipermoderna di una città che non corrisponde più alla vecchia immagine «sonnacchiosa, noiosa e parrocchiale, derisa per decenni dagli abitanti di Mumbai e Kolkata». Ora la capitale indiana, demolita e ricostruita infinite volte nel corso della sua vita millenaria, intende disfarsi delle sue antiche ombre e proporsi come «città del sogno indiano e come suo purgatorio».
Non potevo davvero trovare anfitrione migliore di Sam Miller per immergermi in una megacity capace di smentire se stessa a ogni angolo di strada, con effetti da capogiro: basti pensare all' "impossibile" convivenza della Old Delhi con la nuova città-satellite di Gurgaon. La prima è il solito turbine di puzze, profumi, colori, sapori, miseria e vitalità: un inestricabile groviglio che lascia storditi, se non addirittura paralizzati in sconcertanti ingorghi di risciò! Quanto alla seconda, è una specie di inarrestabile escrescenza urbana che rappresenta il nuovo sogno della classe media: shopping malls, cybercafés, grattacieli belli, brutti e bruttissimi che nascono in continuazione grazie all'immane disponibilità di forza-lavoro a costi irrisori. Poco importa poi se quella stessa classe media che l'abita e frequenta dovrà fare i conti con strade disastrate, carenza di acqua e di energia elettrica. Qui i giovani che parlano inglese hanno infinite possibilità di lavoro,e sono quegli stessi giovani ormai globalizzati (del tutto simili ai loro coetanei londinesi e berlinesi) che poco o nulla hanno da spartire con l'India tradizionale. E poi, conclude Miller, abitare in un "non luogo" può essere un incubo per alcuni, ma per altri è un miraggio. Questo è il modo di procedere di Delhi: per continuo accumulo, per continua sovrapposizione. Delhi è una mille foglie in cui ogni nuovo strato si appoggia tranquillamente sopra al precedente. Sono curioso, ora, di vedere cosa mi attende a Kolkata. - 1 - continua