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Perché in India bruciano le chiese

Testata: La Repubblica
Data: 27 settembre 2008
Pagina: 52
Autore: Marco Politi
Titolo: «Perché in India bruciano le chiese»
 
Case distrutte, chiese incendiate, cristiani perseguitati e uccisi. È una spirale irreversibile? Padre Francois Xavier D' Sa, che incontro a Torino Spiritualità, è professore emerito a Pune, la più antica Facoltà teologica pontificia dell'India, e non sarebbe un gesuita se non invitasse a capire, analizzare e agire in una situazione che definisce molto complessa e in cui «semplificare è un errore».
Padre D' Sa, perché l' India ha perso la sua tolleranza?
«I protagonisti sono piccoli gruppi radicali, che sin dall' indipendenza non hanno accettato il carattere laico dello Stato indiano. Premono perché l'induismo diventi religione di Stato».
Sarebbe un passo indietro.
«La pressione è incoraggiata dal fatto che gli stati confinanti - Pakistan e Bangladesh - hanno l'islam come religione dominante. Per cui i radicali induisti dicono: perché noi non possiamo essere religione di Stato? Poi pesa il fatto che le Chiese cristiane, se prescindiamo dall'antica evangelizzazione attribuita a Tommaso, sono state portate in India dal potere coloniale. Infine ci sono nuovi gruppi cristiani, provenienti in genere dagli Stati Uniti, dotati di molti soldi, che cercano conversioni con uno stile aggressivo, denigrando l' induismo. L' accusa dei fondamentalisti è che i cristiani vanno presso i ceti più poveri e ignoranti per convertirli».
È vero?
«In qualche caso sì. D' altra parte le Chiese cristiane affermano: perché non convertire se la Costituzione lascia questa libertà?».
Per quale motivo la marea fondamentalista si va estendendo?
«I gruppi radicali trovano appoggio in certi ambienti politici. Il fatto nuovo è questo e la presenza del Bharatiya Janata Party (partito nazionalista di destra, già al governo varie volte, ndr). Ora si sentono protetti, prima erano al margine. Non sostengo che il Bjp ordini le aggressioni, ma in qualche modo offre una copertura».
E il governo di Dehli?
«Sta lì e guarda. Non interviene sul serio. È importante però che domenica scorsa alla televisione di Dehli a un talk show tutti i capi religiosi del Paese sia siano distanziati dalle violenze, denunciando un regno del terrore».
C' è una possibilità per invertire la tendenza?
«Per i cattolici diventa essenziale mescolarsi di più alla società indiana. Entrare nel suo mainstream, coinvolgersi nelle sue dinamiche. Spesso noi cristiani in India tendiamo a vivere in ghetti. Sempre le stesse persone, sempre negli stessi posti. Non abbiamo veri rapporti con gli altri. Dobbiamo sviluppare di più le iniziative fatte con altri. E sarebbe positivo che i cattolici si occupassero di politica, invece di starne fuori».
Eppure la Chiesa cattolica è nota per le sue iniziative sociali.
«Iniziative cattoliche. Conosco una suora di Pune che lavora a un progetto di riabilitazione per donne di villaggio, vittime di violenza familiare. Vengono in tantissime. Il coordinamento del suo gruppo è formato da gente di fedi diverse. È questa la via da seguire».
La società indiana come reagisce all' ondata di aggressioni anti-cristiane?
«Gli intellettuali sono a favore dei cattolici. Nelle campagne gli atteggiamenti sono vari. I giornali, invece, non informano abbastanza sulle violenze».
Esiste un modo per invertire la tendenza?
«Seguire la lezione di Gandhi: le religioni si mostrino senza aggressività. Dobbiamo saper agire dal di dentro della società indiana. Dobbiamo imparare a cogliere la ricchezza delle altre religioni. Non solo noi abbiamo tesori, anche loro. Dobbiamo rinunciare alle false rappresentazioni. L' induismo visto come politeista e idolatrico».
Non è politeista?
«Non è vero. Io mi occupo da quarant' anni di induismo. C' è da comprendere che per loro il Divino pervade tutto. Il sole, la luna non sono dei. Il Divino fa sì le cose nascano e vivano nel sole».
Lei propugna, quindi, una strategia culturale di lungo respiro. A che punto è il dialogo fra cristianesimo e induismo?
«Non si è sviluppato abbastanza. A suo tempo un documento vaticano indicò quattro livelli di dialogo. Il dialogo di vita. Le azioni comuni. Gli scambi spirituali. Il confronto tra gli esperti. Dobbiamo insistere su convivenza e iniziative congiunte».
Anche limitandosi nel proselitismo?
«Tra i vescovi predomina la spinta a portare ogni anno nuove cifre a Roma. Tuttavia un fattore importante è il lavoro dei cristiani fra i Dalit».
Cioè i paria.
«Lavorare fra loro fa sì che prendano coraggio e si facciano sentire. Questo i fondamentalisti induisti non lo vogliono! E i Dalit vogliono essere convertiti, perché sperano così di essere trattati meglio. Poi magari scoprono che anche nelle Chiese sono trattati differentemente».
Davvero?
«Nella conferenza episcopale cattolica indiana ce n'è un paio. Uno di loro mi ha confessato che nonostante tutto avverte una differenza nel modo con cui alcuni vescovi gli parlano. Nella mentalità il sistema delle caste spesso persiste».