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Una risposta al teologo Vito Mancuso

Testata: La Repubblica
Data: 28 maggio 2008
Pagina: -
Autore: Eugenio Scalfari
Titolo: «Una risposta al teologo Vito Mancuso»
 
Per il mio libro L'uomo che non credeva in Dio sono stato gratificato da molte recensioni e da
moltissime lettere inviatemi da lettori amici o mai incontrati. Voglio qui ringraziare tutti per
l'attenzione che mi hanno dedicato, per le critiche che mi hanno rivolto e in generale per il tono di
civile conversazione che ha circondato quelle pagine con un alone affettuoso, uno scambio di
esperienze e di sentimenti in un'epoca dove quello scambio è ormai diventato inconsueto.
Ho imparato molto dalle recensioni, dalle lettere, dai dibattiti che hanno avuto il mio libro per
oggetto. Prego di credere che non è una frase di facile e ipocrita cortesia: ho scritto parecchi altri
libri e anch'essi sono stati recensiti e dibattuti ma non avevo mai sentito il bisogno d'un
ringraziamento collettivo e non avevo imparato granché da quelle letture.
Questa volta mi è sembrato diverso, forse invecchiando si gusta meglio e di più la gentilezza altrui e
si avverte il desiderio di ricambiarla.
Non è melassa, ma reciproco nutrimento sentimentale.
Tra i recensori ce n'è stato anche uno che si è concentrato sul contenuto filosofico delle mie pagine.
Per ragioni stilistiche e anche filosofiche il libro è scritto in modo del tutto asistematico, procede
per frammenti, riflessioni, passaggi rapidi da episodi di vita vissuta a riflessioni sul senso, sulle
figure psichiche, sui fondamenti della morale, della politica, della religione.
La filosofia e la vita si sono volutamente intrecciate e così alcune domande e qualche risposta.
Questo modo di procedere era una necessità imposta dal tema da me scelto e cioè una ricerca che
conduco ormai da molti anni sul rapporto tra la vita e i pensieri e sulle modalità con le quali l'una
interferisce e determina gli altri e viceversa. Non potevo avere più autentica e diretta autenticazione
di quel rapporto se non la mia vita e i miei pensieri e questo ho fatto, ma sono stato contento di
sentirmi dire da tanti lettori d'essersi identificati in molte delle mie riflessioni, delle domande che
mi ponevo e delle risposte che ho cercato di dare quando ne sono stato capace. E commossi, così
mi hanno scritto in molti, da alcuni miei ricordi, malinconie, gioie, dolori, insomma abbandoni che
ti vengono quando ti confessi a te stesso e alla pagina destinata ad un pubblico al quale sei legato da
affinità elettive coltivate per anni. «Quel cibo - scriveva il Machiavelli al Vettori - che solum è mio
ed io son per lui». Parlava degli scrittori antichi, io parlo di lettori miei contemporanei ma ciò che
mi lega ad essi ha la stessa qualità e intensità e mi dà una serenità e un benessere spirituale
grandissimi.
* * *
Dicevo che tra i miei recensori ce n'è stato uno che ha concentrato la sua attenzione critica sugli
aspetti filosofici del mio libro. Diciamo sulla mia filosofia. Si chiama Vito Mancuso. Mi ha dedicato
un lungo articolo sul Foglio del 18 maggio. E' filosofo e teologo. Ha scritto libri pregevoli, l'ultimo
dei quali s'intitola L'anima e il suo destino che ho letto con vivo interesse. E' di cultura cattolica
anche se piuttosto eterodossa. Privilegia la ragione sulla fede, ma non al modo di san Tommaso o
almeno non soltanto.
Usa molto le categorie ontologiche, direi ammodernando un tipo di pensiero che è più vicino ad
Anselmo d'Aosta che al grande Aquinate.
A lui desidero rispondere non da scrittore ma piuttosto da filosofo a teologo perché questo tipo di
confronto mi interessa e spero interessi anche i miei lettori.
* * *
Mancuso concorda con me su parecchie questioni. Per esempio sul mio modo di intendere la morale
come un istinto biologico mirato alla sopravvivenza della specie. E ancora sulla mia visione
dell'amore come elemento dominante della vita alla pari con la volontà di potenza. Infine sulla mia
ricerca dei «fondamenti» che determinano le forze primarie e vitali.
Ma dissente, Vito Mancuso, su alcuni punti essenziali e mi coglie in difetto di coerenza. Anzitutto
su Nietzsche.
Secondo lui l'autore di Zarathustra ha demolito la Ragione come grembo primordiale del creato,
mettendo al suo posto il corpo il «soma», l'irrazionale-istintuale.
Scalfari - scrive Mancuso - è intriso di pensiero illuminista e tutte le sue pagine sono un onesto e
cauto esercizio di razionalità, ma d'improvviso abbandona Diderot e Voltaire per Nietzsche. Non è
incoerenza questa inattesa giustapposizione di due tesi completamente opposte tra loro? Rispondo
con una delle frasi che meglio rappresentano il pensiero nietzschiano: «Bisogna avere il caos dentro
di sé per partorire una stella danzante».
Nietzsche parlava per aforismi e metafore e questa è una delle più profonde e poetiche tra le tante
da lui usate. Egli non pensa l'essere alla maniera di Parmenide e delle religioni induiste. Tanto meno
lo pensa come Logos.
Per lui il grembo primordiale - se posso usare l'immagine di Mancuso - è il caos, il ribollente
informe che sfugge alle categorie del tempo e dello spazio.
Il caos non è l'essere ma piuttosto un perenne divenire che erutta forme. La stella è già una forma,
dotata d'una sua figura, d'una proporzione tra gli elementi chimici e le forze elettromagnetiche che
la compongono; una forma in evoluzione, soggetta a regole e leggi proprie; misurabile sia nello
spazio sia nel tempo. Volete conoscere la prima di tali regole? E' l'entropia, la degradazione
dell'energia potenziale che si traduce in luce e calore secondo i principi della termodinamica.
Il caos non è pensabile dalla ragione. Come il nulla. La stella invece è pensabile, misurabile,
degradabile, ha un tempo di nascita e un tempo di morte, soggetto alle leggi imposte dalla sua stessa
natura, conoscibile attraverso i processi propri del pensiero razionale.
Questa del resto è una visione tipicamente spinoziana e Mancuso ricorderà che Nietzsche riconobbe
Spinoza come suo maestro e anticipatore del suo pensiero.
L'irrazionalismo nietzschiano coincide con la visione caotica dell'informe originario ma cessa nel
momento in cui entrano in scena le forme e le leggi che regolano il loro divenire.
In questa concezione non c'è posto per il «logos primordiale». Le religioni monoteiste lo
trasmettono ai loro fedeli come verità certa mentre si tratta di una verità di fede. Dal punto di vista
della ragione vale appunto come un vento di fede, valida soltanto per chi ne sia vivificato e ne
derivi tutte le conseguenze induttive e deduttive. Togliete la fede e l'intera costruzione logica che
poggia su quella premessa crolla come un castello di carta. Il suo guaio, caro Mancuso, è di
scambiare quel vento di fede per verità di ragione.
* * *
Ci sono nel suo articolo altri punti di dissenso con me: il tema della libertà, il tema dell'anima (che
le sta particolarmente a cuore), quello dell'amore in contraddizione (secondo lei) con la volontà di
potenza, quello della Trinità di Dio.
Fossi in lei, teologo cristiano e anzi cattolico, starei molto attento a infilarmi in quest'ultimo
argomento: lei sa meglio di me a quali dispute ha dato luogo il Dio uno e trino.
Dispute da Concilio, votazioni su Dio, scomuniche, scissioni, papi e antipapi, episodi cruenti,
quanto di più lontano da una teologia libera e feconda di pensiero e di carità.
Il tema della libertà, come lei lo pone attraverso le equazioni tra Io e Mondo, è per me assai poco
ricevibile.
Se Io è eguale a Mondo (lei dice) il risultato dell'equazione è zero nel senso che non c'è residuo; se
invece Io è qualche cosa in più di Mondo, da quella sottrazione resta un x e quell'x è la libertà.
Debbo dire che pensare la libertà come un elemento residuale, un sovrappiù dell'Io depurato dalle
influenze esterne (Mondo) mi suscita un sentimento di sgradevolezza.
Nell'immagine corrente la libertà è una forza potente, una «anima mundi» che pervade la vita di
ogni persona e di ogni società. O è questo o non è. La libertà come un residuo mi sembra
impensabile ed anche mi sembra impensabile un Io depurato dalle interferenze del Mondo, cioè
dalla realtà esterna.
Non è lei stesso a sostenere (ed io convengo con lei) che una delle caratteristiche fondative della
nostra specie è la socievolezza che lei chiama «legge relazionale»? E dunque se la relazione con gli
altri è elemento fondativo della specie come è mai possibile concepire l'Io sottraendolo ad uno dei
suoi elementi fondativi?
Significherebbe snaturarlo non depurarlo; significherebbe distruggerlo e quindi privare l'equazione
da lei formulata di uno dei suoi due elementi.
E poi: mi sembra strano che un teologo cattolico concepisca la libertà come un residuo quando tutta
la dottrina cattolica indica nel libero arbitrio la pietra angolare della sua costruzione. Qui - mi
permetta di dirlo - è lei in contraddizione con la sua Chiesa.
Ma torniamo alla libertà. Io ritengo che l'istinto fondamentale di ogni entità vivente sia quello della
sopravvivenza cioè della forma di ciascun vivente e della durata della sua organizzazione. Tutto il
resto ne deriva.
In questa visione la libertà è il modo con cui il soggetto utilizza la realtà esterna e le occasioni che
essa gli offre per poter sopravvivere. La libertà comporta il rischio di sbagliare, l'errore di scegliere
un'occasione che sembra utile alla sopravvivenza e invece non lo è.
Quante specie sono perite anzitempo per aver imboccato strade cieche, prive di evoluzione
ulteriore? Quanti individui hanno compromesso la loro felicità e la loro fortuna scegliendo
«liberamente» l'occasione negativa anziché quella per loro positiva?
Il margine di libertà così concepito è molto piccolo, ma comunque è molto maggiore di quanto non
sia quello di altre specie viventi. Noi siamo dotati di mente riflessiva e quindi di capacità
comparative, cioè di giudizio.
Non solo ci sentiamo soggetti ma aggiungiamo al soggetto il predicato. La nostra libertà ha la sua
radice proprio in quel punto, situato nel rapporto tra vivere e pensare, tra soggetto e giudizio.
* * *
Concluderò parlando dell'amore, un tema che mi è molto caro in tutte le sue declinazioni.
L'amore, come tutti gli altri nostri sentimenti, deriva dall'istinto di sopravvivenza. C'è l'amore di sé
e l'amore per l'altro. Gli animali non hanno questa duplice declinazione; non avendo una mente
adeguata a costruire l'Io agiscono soltanto per sopravvivere. Per noi umani è diverso: noi amiamo
noi stessi ma amiamo anche gli altri la cui esistenza è necessaria alla nostra sopravvivenza. Di qui
nascono la morale e l'egoismo come istinti separati ma alimentati entrambi da quello della
sopravvivenza.
Non ci sono in questa visione atti morali che possano danneggiare la specie, come lei caro Mancuso
sostiene.
Intendo: che possano danneggiare l'umanità della specie. Ci possono invece essere e purtroppo ci
sono atti egoistici che possono danneggiare l'umanità della specie. L'istinto morale interviene a
correggerli, alle volte ci riesce, altre volte no. La nostra vita è fornita di due pedali come una
macchina che abbia un acceleratore ed un freno.
Tra le tante buone letture in materia, consiglio le massime di La Rochefoucauld: fu un uomo per
tanti aspetti detestabile ma aveva un cervello e capacità di giudizio fuori dal comune. Se per caso
non le avesse lette le legga ora, caro Mancuso: imparerà o si rinfrescherà con molte cose che la
teologia non include nel suo sapere.
Non ho bisogno di ripetere che apprezzo molto i suoi scritti. Del resto non avrei dedicato tanto
spazio a contestarne alcuni aspetti.