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Edgar Allan Poe quello sguardo sulle tenebre

Testata: La Repubblica
Data: 29 aprile 2009
Pagina: 44
Autore: Pietro Citati
Titolo: «Edgar Allan Poe quello sguardo sulle tenebre»

Nel Crollo della casa Usher, Edgar Allan Poe attribuisce al melanconico protagonista una lirica che egli aveva scritto qualche tempo prima, e che rappresenta il suo mito. Una volta, nella più verde delle nostre valli, si ergeva il radioso Palazzo del Pensiero: bandiere d'oro ondeggiavano sul tetto: un aroma paradisiaco si spargeva lungo i baluardi araldici; spiriti angelici si muovevano ritmicamente, secondo il suono di un liuto melodioso, attorno al trono del re del Pensiero, mentre una folla di echi cantava la sua saggezza. Ai tempi di Usher e di Poe, la gloria del Pensiero è finita. I viaggiatori non scorgono più il sovrano sul trono: grandi forme si muovono fantastiche al suono di una melodia discorde, circondate dal veloce ritmo spettrale di una folla di mostri ghignanti. Poe sapeva che l'apologo parlava di lui e dell'artista moderno. In un'altra vita, forse era stato l'antico, armonioso re del Pensiero: adesso era soltanto uno spettro tragicamente meditativo, che intonava una musica dissonante e rideva senza grazia. Aveva conosciuto un destino di luce. Ora sapeva che il suo massimo dono era quello di portare in sé la tenebra: essere tenebra in ogni luogo dell'intelligenza, dell'anima e del cuore; e irraggiarla intorno, riversandola su ogni oggetto dell'universo. Avrebbe potuto lasciarsi invadere passivamente da questo nero: mentre con un ardire brillante, febbrile e imperterrito, con un coraggio che non abbandonò nemmeno nell'Inferno e nel maelstrom, con occhi lucidi e minuziosi, osservò questa tenebra, la rappresentò e la descrisse. Laggiù, nelle rovine della casa Usher, Poe costruì la prima immagine del letterato moderno. Soffriva di una monomania d'attenzione: indugiava per ore, senza stancarsi, con gli sguardi concentrati, su qualche disegno casuale o sulla grafia di un libro: contemplava per ore un'ombra bizzarra che cadeva sghemba sulla tappezzeria: trascorreva le notti a osservare le braci di un focolare, i giorni a sognare i profumi di un fiore e a ripetere in modo monotono una parola comune, finché il suono cessava di esprimere qualsiasi idea. Oppure si abbandonava alla fantasticheria: affascinato da un oggetto, si lasciava attrarre in un intrico di analogie, fino a dimenticare la causa prima del suo vagheggiamento. I suoi sensi erano morbosamente sottili e acuti: sentivano gli strepiti dell'Inferno, il battito di un cuore morto; e i nervi, sovreccitati, dilatati, isterici, prolungavano all'infinito queste sensazioni. Non aveva requie fino a quando strappava la loro forza ai sogni della notte, ai sogni a occhi aperti, agli incubi della follia e dell'alcol, al delirio della morfina. Sapeva che la via dei sensi e dei nervi, accortamente sfruttata, ci conduce verso ogni oltre - verso ogni mistero, enigma o nodo metafisico. Possedeva un'intelligenza prodigiosa: insieme esatta e inafferrabile, architettonica e paradossale. Le poche righe che, nel Gatto nero, scrisse sul peccato: sul desiderio dell'anima di violare la legge, di torturare sé stessa, di violare l'amore, di porsi al di fuori della pietà di Dio - sono degne del più appassionato teologo e moralista, che abbia mai curvato lo sguardo sull'abisso del cuore umano, Agostino o Pascal. Quanto all'altro grande tema che gli era caro, le infinite conseguenze di ogni nostro atto o pensiero, era pronto per esser consegnato a Dostoevskij. Ma Poe non restaurò le mura dell'antico Palazzo del Pensiero. Mentre nel vecchio Palazzo si costruivano luminose architetture mentali del Tutto, l'intelligenza di Poe, come scrisse Baudelaire, era "congetturale e probabilistica". La letteratura moderna nasceva sui fogli del giornale. Molti avevano già scritto su giornali e riviste, nel secolo passato: ma tra le mani di Poe il giornalismo prese una nuova forma. Non si accontentava di compilare avventure marinare o di scrivere critiche o di risolvere crittogrammi: confidava per qualche dollaro il mare di tenebra che saliva in lui fino a sommergerlo. Le sue idee e sensazioni più care dovevano badare all'effetto, per intrattenere ed eccitare: dovevano costruire piccole mitologie, per imprimersi meglio nella mente dei lettori pigri. Tutte le forme dorate della letteratura erano abbandonate. Ora soltanto forme brevi, concentrate, trasversali, rose dai nervi e dalla brama di successo: forme consumabili e deperibili, che venivano costruite velocemente, lette impazientemente, insieme alla colazione o durante la siesta, e subito dimenticate. Era una sfida tremenda - la stessa che affrontò Balzac nei medesimi anni - che avrebbe distrutto la vita, non la coscienza letteraria di Poe. Aveva capito che dall'incontro tra la tenebra e il foglio di giornale poteva nascere una nuova forma letteraria: quella dei suoi Tales of the Grotesque and Arabesque. Malgrado tutto, non era stato abbandonato dagli angeli: per usare le parole delle Terre di Arnheim, la sua letteratura «non era Dio né da Dio promanava, ma era pur sempre lavorata dalle mani degli angeli che si librano tra l'uomo e Dio». Tra le molte mitologie che Poe immaginò, la più grandiosa è dedicata al Melanconico, al Saturnino, all'Angelo cupo e tenebroso, che Dürer aveva rappresentato tre secoli prima. Il suo Melanconico, che soffre alternativamente di euforia e di depressione è una figura attiva, che si sforza di conquistare e comprendere il mondo creato, e di ricrearlo. Il primo passo è l'avventura. Il sogno dell'avventura marina, delle grandi esplorazioni e della pirateria, il sogno dell'immenso tesoro sprofonda nell'immaginazione infantile di Poe. Ma è anche una fantasia saturnina. Salendo sulle navi, dirigendosi verso le isole del Pacifico o il Polo Sud, dove troverà stranamente una corrente calda, Arthur Gordon Pym, il primo dei melanconici, vuole abbandonare il proprio torpore: conoscere la fame e il naufragio, la prigione e la desolazione, l'orrore e la morte, le condizioni estreme nelle quali soltanto sente di esistere: spostare la bandiera che segna l'ultimo punto raggiunto dalle conoscenze umane - e là in fondo scoprire il grande mito, l'enigma del Bianco luminoso, che calma la sua sete di infinito. Dopo Gordon Pym, ecco Auguste Dupin, il tenebroso e snobistico principe di tutti gli investigatori. Dupin è un' "innamorato della notte". Appena il sole si leva, chiude gli scuri del suo vecchio appartamento: accende un paio di candele odorose, che diffondono raggi fiochi e spettrali,e si lascia invadere dai sogni, leggendo, scrivendo, conversando, fino al momento in cui il rintocco delle ore lo avverte che l'amichevole Tenebra è discesa: allora esce a passeggiare, vagando a lungo senza meta, tra le luci strane e le strane ombre della sterminata città moderna. Con la mente penetrata di notte e l'intelligenza brillante e acutissima, si avventura nel giorno, illuminando i misteri che gli araldi del giorno - i giornali - portano alla luce. Sceglie una parte della realtà: quella che sta in superficie, formata di particolari infimi, irrilevanti e casuali, segnata di minutissimi indizi. I rappresentanti del mondo diurno non li capiscono, perché credono nella ragione e non hanno lo sguardo adatto alle superfici. Invece Dupin, l'uomo degli abissi, ci informa ironicamente che "la verità non sta sempre in fondo al pozzo. Credo anzi che ciò che sopratutto interessa stia in superficie". Nelle lunghe passeggiate per la città addormentata, Dupin elabora il suo metodo analitico: fondato sulla facoltà di osservazione, su un dono quasi dostoevskijano di simpatia e di identificazione con l'anima altrui, su una prodigiosa memoria, sui favori del caso e sulla capacità di deduzione, che gli permette di disporre in una rigida catena consequenziaria gli indizi sparsi nel tessuto quotidiano della realtà. Oggi noi scorgiamo nel metodo di Dupin una delle più eleganti teorizzazioni dell'analisi intellettuale moderna, che avrebbe prodotto la psicanalisi e la semiologia. Ma Auguste Dupin è molto di più. E' un meraviglioso ciarlatano, che indossa ironicamente e beffardamente le vesti antiche del veggente e del mago. Egli abolisce l'esprit de géométrie: porta l'esprit de finesse, l'intuizione e l'analogia, al punto estremo di penetrazione, trasformandolo in una scienza abbacinante, che dà certezze più sicure del calcolo aritmetico. La notte alla luce delle candele, la notte sognante e saturnina invade e conquista la realtà diurna, dimostrando di essere la più alta qualità matematica che possediamo. Nel più bello dei Marginalia, Poe scriveva: «Esistono alcune fantasie di delicatezza squisita, che ho trovato impossibile tradurre nella lingua scritta. Esse scaturiscono dall'anima (ahimè quanto di rado!) soltanto in periodi di assoluto benessere, quando il corpo e la mente raggiungono il loro massimo equilibrio e negli attimi in cui i confini del mondo reale si fondono con quello dei sogni. Le percepisco soltanto quando sto per abbandonarmi al sogno, ma sono ancora consapevole del mio stato di veglia... Considero queste visioni con un timore che, in qualche modo, attenua o rende più serena l'estasi: le osservo nella convinzione che questa esperienza sia di natura del tutto soprannaturale - sia uno sguardo dello spirito verso l'al di là... In queste fantasie, non vi è nulla che possa essere definito simile alle impressioni che riceviamo di solito: come se i nostri cinque sensi venissero sostituiti da altre miriadi di sensi sconosciuti ai mortali». L'anima di Poe era avvolta e assediata da queste immagini dell'indefinito e dell'infinito, che gli sembravano costituire l'unica ragione della sua vita. Nei Racconti, Poe volge rigorosamente le spalle a queste immagini indefinite. Quando costruisce giardini immaginari, edifica prospettive chiuse: quando ricostruisce il cosmo, immagina una serie di universi limitati, ognuno diviso dal muro del vuoto, ognuno con le proprie leggi e il proprio Dio; e prepara le più perfette, compatte e coerenti macchine chiuse che mai uno scrittore moderno abbia immaginato per uccidere in noi l'idea di infinito. Molti psicanalisti hanno analizzato, nei Racconti, la presenza e la viscosità ossessive delle figure dell'inconscio, che vengono imperfettamente alla luce, ancora bagnate dall'oscurità dalla quale escono. Sovente essi trascurano la complessità che questi impulsi assumono nel sistema di Poe. Quando abbiamo indagato soltanto le tracce di necrofilia in Berenice e Ligia, trascuriamo la grandiosa passione metafisica che spinge Poe oltre i limiti della percezione e della vita. Egli vuol sapere cosa esiste di là: vuol sapere se il nostro principium individuationis, che ci ha sorretto durante i gesti dell'esistenza, può sorreggerci anche dopo la morte, e dar luogo a nuove forme di incarnazione. Dedica tutta la sua attenzione alla possibilità che la morte e la vita, coincidano: guarda con sempre rinnovata simpatia agli strascichi, alle ombre, al corteggio indefinitamente spettrale che ci lasciamo dietro di noi; o descrive con sottigliezza delicatissima i nuovi sensi del nostro corpo etereo. Spesso gli archetipi di Poe sono archetipi della mente: come quelli del vortice, del pozzo, del doppio, del mortale pendolo del tempo, della cantina o della sentina o della bara chiusa, dalla quale, forse, non potremo mai più uscire. Dovunque questi impulsi affondino, da qualunque luogo sgorghino alla luce con indemoniata violenza, si traslocano tra le pareti chiuse del cranio: le passioni del cuore - così ardenti che, se fossero state descritte avrebbero "raggrinzato e incendiato" la carta - diventano passioni mentali; e tutto ciò che era inconscio assume un sapore intellettuale. Molti fra i grandi Racconti hanno un inizio saggistico. Poe rappresenta un'idea o una sensazione o una situazione,